domenica 10 ottobre 2010

Regimi di volatilità (questi sconosciuti)

Si sente molto spesso parlare, sui blog finanziari e non solo, di regimi di volatilità. Il problema è che nove volte su dieci ciò avviene a sproposito. È una situazione frequente: le persone colgono la presenza o l’azione di un fenomeno empirico, grazie all’intuizione, ma poi lo interpretano in maniera erronea o ancora più spesso utilizzando strumenti inadeguati. Insomma, sbagliati. Ora, che la volatilità cambi nel tempo è cosa risaputa e, mi spingo a dire, accettata dai più. Certo, un bell’aiuto in questo senso lo ha fornito anche l’indice VIX, e rendiamo grazie agli sforzi compiuti dal CBOE (ben remunerati, a vedere i volumi dei derivati ivi scambiati ogni giorno). In questo intervento, con il sostegno morale dei residui 2 lettori non ancora preda di Morfeo, cercheremo di dare un contenuto preciso, il più possibile chiaro (almeno, questi sono gli intenti), al concetto di regime di volatilità, fornendo un’applicazione pratica al mercato americano che speriamo sia illuminante, se non altro sul piano metodologico.
Partiamo da lontano. Tutti qui sanno, o sono supposti sapere, cos’è una variabile casuale Normale. Se non lo sapete c’è Santa Wikipedia, ma non abusatene perché, oltre a dare dipendenza, talvolta può confondere ulteriormente le idee. Bene: stando così le cose, non è difficile immaginare cosa siano due variabili casuali Normali. Se a questo punto aggiungiamo l’ipotesi di indipendenza fra queste, direi che non sconvolgiamo la vita di nessuno. Ordunque, ponderando queste due v.c. Normali con dei pesi compresi fra 0 e 1 ( e che chiameremo w) o, se preferite, combinandole linearmente in modo convesso, otteniamo quella che si chiama mistura di Normali. In formule (sperando che sia leggibile):

w * N(mu1,sigma1) + (1 – w) * N(mu2,sigma2)

Questa distribuzione di probabilità ha conosciuto una grande fortuna nell’econometria finanziaria, perché dotata di una grande flessibilità, che le consente di approssimare, anche con margini di errore molto ridotti, qualsiasi distribuzione empirica di rendimenti. Altre ragioni del suo successo, in particolare alcune elucubrazioni del buon B. Mandlebrot, le evito accuratamente, giacché qui si discetta di econometria, e non di magia egizia. In particolare, se avete la pazienza di concentrare la vostra attenzione sul grafico sottostante, formato con la serie storica dei rendimenti mensili dell’indice S&P 500 dal Dicembre 1949 all’Agosto 2010, potrete accorgervi della sua asimmetria, nonché della presenza di una (preoccupante) gobba nella coda sinistra.




Già, la tanto famigerata leptocurtosi, una compagna tanto fedele quanto perniciosa dell’investitore, anche se molti fanno finta che non esista. Tale eccesso di massa di probabilità nei valori estremi negativi potrebbe essere generato dalla giustapposizione tra una Normale con media e varianza centrate sui rispettivi valori campionari e magari un’altra v.c. Normale, con la media appunto spostata nella coda sinistra e un’opportuna varianza. Insomma, se fosse questo il caso, avremmo proprio a che fare con una Mistura di Normali. Ora, immaginate che i pesi di questa mistura possano variare nel tempo, di modo che, ogni mese, le code e l’asimmetria del nostro indice cambino a loro volta. Il motivo di questo comportamento può avere le più disparate ragioni, quali il mutare delle informazioni disponibili sui mercati, decisioni di politica monetaria o altri shocks macroeconomici. Sotto queste condizioni la nostra mistura sarebbe dinamica: se i pesi delle due v.c. Normali fossero governati nel tempo da una catena markoviana (e rivai con Wikipedia…) ben definita, allora avremmo tra le mani un bel, si fa per dire, modello a cambiamento di regime markoviano (cd. Markov Switching Regime). Un processo di questo tipo è dunque una successione stocastica di stati, ciascuno caratterizzato dal suo proprio rendimento atteso e volatilità. L’aspetto più delicato, come è facile intuire, è l’inferenza sui regimi, il che sostanzialmente si riduce a formulare una domanda: quanti regimi agiscono nella serie (ammesso che ce ne siano)?
Rispondere a questa domanda è un lavoraccio. Per i più esperti, rammenterò che utilizzare i tradizionali testi di verosimiglianza (tipo Lagrange Multiplier o Likelihood Ratio) non è possibile, perché l’ipotesi alternativa (appunto la presenza di un regime) è sulla frontiera della regione del test medesimo, e quindi la statistica test non ha una distribuzione standard. Ecco perché spesso si ricorre a simulazioni Monte Carlo o a procedure non parametriche (per non parlare degli strumenti d’inferenza bayesiana). Una domanda dunque controversa e stimolante, alla quale, per quel che ci riguarda, abbiamo fornito la solita risposta brutale (che, volendo essere rigorosi, in realtà avrebbe dovuto essere un’assunzione da verificare all’inizio della nostra indagine, ma turiamoci il naso e andiamo avanti...). Basandoci sull’esperienza empirica e sull’opinione prevalente degli investitori, abbiamo formulato l’ipotesi che il mercato azionario (americano, nel nostro studio) sia caratterizzato da un regime bullish (drift positivo), un regime neutral (drift nullo) e un regime bearish (drift negativo). Pertanto, le tre componenti di questa mistura di Normali saranno:

Normal(m_Bullish,sigma_Bullish) con m_Bullish > 0
Normal(0,sigma_Neutral)
Normal(m_Bearish,sigma_Bearish) con m_Bearish < 0

In un modello a cambiamento di regime le probabilità di transizione da uno stato all’altro determinano il succedersi degli stati. Tuttavia, siccome ogni singolo stato non è direttamente osservabile (infatti, anche un rendimento positivo potrebbe in teoria essere stato generato dal regime bearish, per quanto poco probabile), il rendimento stimato di ogni periodo risulta dalla ponderazione dei tre regimi con le rispettive probabilità di transizione. Si può dimostrare che questo “induce” una forma di eteroschedasticità nella serie (cioè di varianza non costante nel tempo), utile a modellare una delle più frequenti e importanti caratteristiche che di solito si riscontrano nelle serie dei rendimenti finanziari.
Qui di seguito trovate il grafico delle probabilità di transizione in ogni mese.







Come si leggono queste probabilità? Precisamente come la probabilità, data tutta l’informazione disponibile fino al periodo corrente, di trovarsi domani in uno dei tre regimi indicati sopra. In questo modello si può anche calcolare la durata media di ogni stato (rimando a San Hamilton per i dettagli del caso).
Ecco qui i risultati. I coefficienti del modello sono tutti significativi al 95% di confidenza. I tre regimi sembrano ben differenziati, con lo stato bullish caratterizzato da un drift pari a 1.02% e quello bearish pari a -4.07%. Il tempo medio di persistenza dei tre stati è rispettivamente di 24.2, 14.03 e 3.01 mesi. Come leggere questi risultati? Non ho la sfera di cristallo ma posso dirvi la mia modesta opinione, sempre che non vi siate ancora legati un’incudine al collo con l’idea di buttarvi nel Po,. La serie storica dei rendimenti dello S&P 500 ha una tendenza a permanere per più tempo nello stato di espansione, e tuttavia la durata media dello stato neutral (in cui in sostanza il processo si comporta come un puro white noise) non è bassa. Infine, per quanto tre mesi di durata media dello stato bearish possano sembrare pochi, questi si verificano con un drift marcatamente negativo, addirittura quattro volte superiore in valore assoluto a quello del regime bullish (ricordo a chi si fosse svegliato adesso che si tratta di valore mensili, insomma non annualizzati). Quindi, riassumendo: lo stato bullish è più frequente, ma quello bearish espone a perdite capaci di annullare completamente (e anche di più) i guadagni generati dal mercato in fase di espansione.
E la tanto decantata volatilità? Le stime sembrano coerenti con la percezione che dei mercati hanno la maggior parte dei practitioners. In fasi espansive, la volatilità è bassa (poco più del 10% su base annuale), in fasi di stagnazione tocca il 16.14% annualizzata, per raggiungere il suo massimo nel regime di contrazione (quasi il 30% annualizzata).
Guardando alle probabilità di transizione, notiamo che è almeno da Gennaio 2009 che il mercato americano si trova nello stato neutral. Ma se preferite chiamarla fase laterale come il più pappone dei papponi, beh, mi tappo le orecchie, fate pure.
Il problema più grosso, nella stima di questi modelli, è la convergenza dell’algoritmo di massimizzazione della logverosimiglianza. Infatti, un modello a cambiamento di regime ha un profilo di verosimiglianza non regolare (in inglese: smooth), presentando una molteplicità di massimi locali. Centrare il massimo globale è un’impresa ardua, che si può sperare di coronare col successo solo imponendo idonee restrizioni sullo spazio parametrico, avendo a disposizione un campione numeroso e ripetendo la stima più volte con starting values differenti, confrontando il valore della logverosimiglianza di volta in volta ottenuto. Insomma, è questo un tema aperto della ricerca econometrica, ben lungi dall’essere risolto (un contributo importante recentemente lo ha fornito il solito immenso James D. Hamilton). Gestire correttamente questi aspetti controversi è spesso una questione di sensibilità “artigianale”. Nel nostro piccolo ci abbiamo provato, nel tentativo di offrire un nuovo spunto di riflessione e discussione.

Adesso, come sempre, tocca a voi.

Stay tuned!

P.S. Per completezza riporto anche i grafici di volatilità, asimmetria e curtosi. Tutte e tre le serie sono state calcolate tramite simulazione Monte Carlo del processo (per ogni singolo mese). In effetti le forme chiuse dei momenti superiori al secondo sono abbastanza involute, quindi ho preferito ricorrere alla simulazione. Per i commenti sui grafici, spero di farmi vivo quanto prima... ma come sempre non contateci troppo!







Nessun commento:

Posta un commento